Page 14 - Sulla vita cenobitica o comune
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costantemente coltivata e nutrita da una reciproca accettazione e una reciproca
sottomissione; che viene custodita con delicatezza e prudenza perché non venga
meno; che non è adombrata da alcuna finzione.
Questa carità è di quanti veramente accettano di amarsi in Cristo non a parole
né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Questa carità Cristo la imprime, la
fissa, la incide nei nostri cuori profondamente con la parola e con l’esempio
quando dice: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri
come io vi ho amati». In questa carità, vincolo della pace, viene conservata
l’unità dello spirito. Questa è la legge della vita comune: l’unità dello spirito
nell’amore di Dio, il vincolo della pace in una reciproca e ininterrotta carità di
tutti i fratelli, la comunione che viene dal mettere in comune ogni bene
allontanando decisamente ogni occasione di proprietà personale come estranea
all’idea stessa di vita religiosa.
Perché tutto questo sia in noi e in noi rimanga, come si addice a quanti hanno
un cuore solo e un’anima sola e ogni cosa comune, la grazia del Signore nostro
Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo siano con tutti
noi. Amen.
IX. UN SOLO CORPO VIVENTE NELL’AMORE
A proposito della concordia che viene dalla reciproca carità esaminiamo la
nostra stessa natura, quella del nostro corpo. Essa ci esorta a conservare la pace,
dato che anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo, membra gli uni
degli altri. Un solo spirito vivifica l’intero nostro corpo attraverso tutte le
membra e le loro giunture e articolazioni; e suscita la reciproca pace, nella quale
è serbata l’unità dello spirito. La suscita attraverso una reciproca accettazione e
una reciproca sottomissione delle membra. Considerate e osservate come le
ricchezze che appartengono a ciascun membro servano all’utilità del tutto.
L’occhio non vede solo per sé, ma indirizza anche i piedi sui loro passi e la
mano nei suoi lavori. La bocca non mangia e lo stomaco non digerisce solo per
sé, ma si svolge fra i due un’operazione comune: inoltre la bocca assume e lo
stomaco digerisce ciò che è sufficiente e utile per il nutrimento dell’intero corpo.
La lingua poi, se qualche parte del corpo è ferita, non grida forse al feritore
«Perché mi ferisci»? Fa propria in tal modo la sensibilità di chi compatisce e la
voce di chi patisce. E il cuore, ansioso dell’utilità comune, non dispone forse
ogni cosa attorno a sé in modo che ciò che giova agli altri giova anche a sé? E le
mani, nate per l’aiuto, consacrate al servizio, come ci insegna l’esperienza
quotidiana, non si umiliano forse fino a fare obbedienza ai piedi? Che accade se
una mano, come talvolta capita, ferisce l’altra? Quella che è stata ferita si arma
forse di zelo per la vendetta, e perché colpita colpisce a sua volta? O non accade
piuttosto che quella che ha ferito, quasi punta di dolore per la coscienza della
sua colpa, sofferente di pentimento, si affretta a dare soddisfazione, ad
applicare alla sorella lesa il miglior rimedio che trova per guarirla? E intanto
attraverso il suo umile servizio implora misericordia, supplica di essere