Page 81 - Sermone sul Cantico dei cantici (II)
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che le sue ultime siano simili a queste! Perciò in fine si sente dire: Mia colomba
                  nelle fessure della roccia, perché medita con tutta devozione le piaghe di Cristo, e
                  con costante contemplazione abita in esse. Di qui la pazienza nel martire, di qui
                  la sua grande fiducia nell’Altissimo. Non ha nulla da temere il martire che leva
                  il  suo  volto  esangue  e  livido  verso  di  lui,  dalle  cui  lividure  è  stato  sanato,
                  imitandone la gloriosa morte, veramente nel pallore dell’oro. Che ha da temere,
                  mentre gli viene detto dal Signore: Mostrami il tuo volto? Per quale ragione? A
                  mio  parere  vuole  piuttosto  farsi  vedere  lui.  È  così:  vuole  essere  veduto,  non
                  vedere.  Che  cosa  infatti  c’è  che  egli  non  veda?  Non  c’è  bisogno  che  uno  si
                  mostri  dal  momento  che  egli  vede  tutto,  anche  se  uno  volesse  nascondersi.
                  Vuole dunque essere veduto, vuole il duce benigno, che il volto e gli occhi del
                  devoto soldato si levino alle sue piaghe, per sollevare così l’animo suo e con il
                  suo esempio renderlo più forte nel sopportare.

                  8.  Poiché  guardando  le  piaghe  di  lui  non  sentirà  le  sue.  Ecco  il  martire
                  tripudiante e trionfante, sebbene abbia tutto il corpo lacero, e mentre il ferro gli
                  penetra  i  fianchi  non  solo  con  fortezza  ma  con  ardore  vede  ribollire  il  sacro
                  sangue dalla sua carne. Dov’è allora l’anima del martire? È al sicuro, cioè nella
                  pietra,  nelle  viscere  di  Gesù,  che  con  le  ferite  aperte  invita  ad  entrarvi.  Se
                  l’anima del martire fosse nelle sue proprie viscere, certamente sentirebbe il ferro
                  che le lacera, e non sopporterebbe il dolore e soccomberebbe rinnegando. Ma
                  abitando nella pietra, che meraviglia  c’è se è  duro come la pietra? Ma non fa
                  neppure meraviglia se, assente in qualche modo dal corpo, l’anima non sente i
                  dolori  del  corpo.  Questo  è  effetto  non  di  insensibilità,  ma  di  amore.  Il  senso
                  viene  sottomesso,  non  perso.  Non  manca  il  dolore,  ma  viene  disprezzato.
                  Dunque, dalla pietra deriva la fortezza del martire, da essa il martire ottiene di
                  essere  forte  nel  bere  il  calice  del  Signore.  E  come  è  splendido  questo  calice
                  inebriante! Splendido dico, e giocondo, non meno a Cristo che guarda quanto al
                  soldato  trionfante.  Il  gaudio  infatti  del  Signore  è  la  nostra  fortezza  (2  Esd  8,10).
                  Come non godrà alla voce di una fortissima confessione? E la cerca anche con
                  desiderio: Risuoni, dice, la tua voce alle mie orecchie (Cant 2,14). Né tarderà a dare
                  il contraccambio, secondo la sua promessa: non appena uno lo avrà confessato
                  davanti  agli  uomini,  lo  riconoscerà  anche  lui  davanti  al  Padre  suo.
                  Interrompiamo il sermone; non può finire ora perché non rispetteremmo i limiti
                  se volessimo abbracciare in questo solo sermone quanto ci rimane da dire su
                  questo  capitolo.  Quello  che  resta,  dunque,  lo  riserviamo  al  principio  del
                  prossimo  sermone,  perché  della  nostra  parola  e  della  nostra  misura  goda  lo
                  Sposo  della  Chiesa  Gesù  Cristo  nostro  Signore,  che  è  sopra  tutte  le  cose  Dio
                  benedetto nei secoli. Amen.



                                                    SERMONE LXII
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