Page 49 - Teologia Mistica
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servo, o Signore, perché nessun vivente può aver ragione davanti a te» [Sal 142,2]. E
poi ancora: «Signore, non mi riprendere nel tuo sdegno, non mi punire nella tua ira»
[Sal 6,2]. Su questo tema molti hanno scritto in molti modi. Nei soggetti di cui stiamo
parlando non c’è tanto il desiderio del premio, quanto piuttosto il timore dell’eterno
supplizio — un timore che, certo, è lecito, prudente.
Altri, che potremmo chiamare dei mercenari, chiedono a Dio, sovrano generosissimo
e Padre «di misericordia e Dio di ogni consolazione» [2Cor 1,3], la mercede celeste per
la loro sottomissione con parole di questo genere: «Padre, ho peccato contro il cielo e
contro di te; ormai non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno
dei tuoi lavoratori a giornata» [Lc 15,18-19]. Costoro in effetti si comportano bene,
come figli consapevoli della propria miseria, ma non come si conviene ai perfetti.
Altri ancora non sono mossi né dal timore della pena né dall’aspettativa della
ricompensa, bensì dalla considerazione della condiscendenza di Dio e della sua paterna
bontà: il loro amore si chiama filiale. Alcuni, ma piuttosto pochi, sono rapiti in Dio non
con animo servile, non con animo mercenario, e neppure con animo solo filiale, ma più
che filiale, come se si fossero scordati della sua severità, della sua [equità nel dare la]
ricompensa, della sua autorità paterna; si uniscono a Lui come un amico ad un amico,
anzi si congiungono a Lui con dolcissima familiarità come la sposa allo sposo. Una
persona siffatta potrebbe dire: «Io sono del mio diletto, ed egli è tutto rivolto verso di
me» [Ct 7,10], ed anche: «Che c’è per me in cielo (aggiungi: come ricompensa)? E che
desidero da te sopra la terra (aggiungi: per evitare il supplizio)? La mia carne e il mio
cuore vengono meno, o Dio del mio cuore: la mia parte è Dio in eterno» [Sal 72,25-26].
Annoveriamo i primi tra gli incipienti, i secondi tra i proficienti; gli altri sono i
perfetti, a condizione però che sempre si rifacciano all’esempio dei primi, cioè si
rimproverino, riflettano con grande umiltà d’animo che sopra di loro c’è un giudice
severissimo, un maestro e signore e padre che ricorda e punisce le mancanze, giacché
sta scritto: «Se non ti tieni continuamente saldo nel timore del Signore, andrà presto in
rovina la tua casa» [Eccli 27,4]. Nondimeno anche dopo le offese e gli adultèri oseranno
tornare allo sposo, ricordandosi di ciò che egli ha detto per bocca di Geremia: «Tu hai
fornicato con molti amanti, ma ritorna a me ed io ti riprenderò. Almeno ora dunque
invocami: O Padre mio, tu che sei il custode della mia verginità» [Ger 3,1.4].
Libero comunque ciascuno di pensarla come vuole, io ritengo che la norma più
saggia, adottata dai più, sia quella di figurarsi Dio come il Padre nostro che è nei cieli
[Mt 6,9]: un’immagine che serve ad incutere il timore iniziale o a infondere l’amore
filiale, e che in generale spinge a chiedere con rispettosa fiducia tutto quel che è
necessario per il faticoso pellegrinaggio di quaggiù. Infatti certi nomi, come Dio,
maestro, giudice giusto che ben presto vendica le offese ecc., più che infondere amore
incutono un forte timore; altri nomi, poi, come amica, sposa, bella, che sta tra le delizie
e in giacigli odorosi, diletto, bello, vermiglio, che riposa sui seni, che tiene la sinistra
sotto il capo dell’amica e con la destra l’abbraccia, contribuiscono a rendere il
sentimento di alcuni più tenero del necessario e meno sincero. Invece l’appellativo
«Padre nostro» tiene in modo mirabile il giusto mezzo fra i due gruppi precedenti,
perché esprime un timore che rende ossequio con l’amore e un amore che si custodisca
nel timore. Padre nostro, tu ci hai veramente mostrato la benignissima sapienza della tua
carità quando ci hai insegnato a iniziare così la nostra preghiera.
Sarebbe bello sviluppare questo punto in uno scritto più ampio, ma il nostro discorso
deve muoversi velocemente nella direzione intrapresa.