Page 35 - Teologia Mistica
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Questa sembra essere la natura della conoscenza: si sforza più di trarre a sé e di
assimilare la cosa conosciuta, che non di andare verso di lei. A ciò sembra alludere il
Filosofo quando dice che il vero è nell’intelletto, il bene nelle cose. Quale meraviglia
dunque se la conoscenza da sola non sia capace di uscire dal mare dei desideri dei sensi
e di raggiungere il porto o la spiaggia dell’eternità che le sta di fronte?
Come il nocchiero, che passasse i suoi giorni a disquisire dottamente con garrula
loquacità sul modo di governare la nave senza far nulla di quel che dice, non la
trarrebbe mai fuori dai flutti del mare verso la spiaggia sicura, ma piuttosto la
lascerebbe affondare o la vedrebbe sempre sballottata ed esposta a tutti i pericoli, così il
nocchiero spirituale non conseguirà mai, con la sola conoscenza del mare delle cose
intelligibili, con la sola visione, la sicurezza del porto divino.
A favore di questa tesi vi sono molte testimonianze concordi delle divine Scritture,
ma qui ne addurremo espressamente solo una, quella cioè sulla chiamata dei figli di
Zebedeo, quando il Signore Gesù comandò loro di venire a nuoto dal mare di Galilea
verso la spiaggia — che dal punto di vista anagogico è la teologia mistica. Vediamo ora
cosa significhi in senso anagogico, cioè in un senso che porta verso l’alto, il mare di
Galilea, la sua spiaggia, la nave, la chiamata del Signore ecc.
In senso morale il mare significa il mondo presente, in senso anagogico
l’ondeggiamento della nostra sensibilità corrotta, poiché, come dice il sapiente, «il
cuore dell’empio è come un mare in tempesta» [Is 57,20]. Quel mare è chiamato di
Galilea perché Galilea significa cambiamento o passaggio: orbene, cosa c’è di più
mutevole, di più inquieto, di più proclive al cambiamento, della sensibilità? Ora si
gonfia di arroganza, ora si esalta di speranza, ora si abbatte per disperazione, ora ribolle
ed esce di sé per l’ira, ora si macera in sé e si rode per l’invidia, è avida per l’ingordigia,
schiuma di bassa voluttà per la lussuria, è resa instabile ed insaziabile dalla brama
sempre insoddisfatta. E poi ci sono i pesci e i rettili dei vari desideri, «che sono senza
numero» [Sal 39,13]. D’altra parte «quelli che scendono in questo mare» dei sensi «con
le navi» dei ragionamenti naturali «vedono le opere di Dio, e i suoi prodigi nel
profondo» [Sal 106,23-24]. Ma in quale profondo? Dice la Scrittura: il cuore dell’uomo
è profondo «e inscrutabile: chi lo potrà conoscere?» [Ger 17,9]. In questo profondo
comunque Dio opera grandi prodigi, che pescatori zelanti, cioè i filosofi di questo
mondo, hanno cercato di scrutare mediante le reti delle loro elucubrazioni e delle loro
dottrine, ma «agli scrutatori è venuto a mancare il discernimento» [Sal 63,7], e così non
sono riusciti a cogliere la causa di tante e tanto inquiete oscillazioni nella nostra carne.
A noi però Dio l’ha rivelata: col peccato del primo uomo si è rotta la concordia, si è
spezzata l’alleanza interiore tra la ragione che governa e la sensibilità che obbedisce. E
così, come suggerisce l’immagine poetica, apertosi l’antro di Eolo (il dio dei venti),
subito soffiarono «i venti» delle passioni, i quali, «fatta come una schiera» da parti
opposte, turbarono con una grande tempesta il nostro mare. Chi ignora, chi non sente,
esposto ogni giorno ai pericoli del naufragio, quanto sia vero quel mesto canto
ecclesiastico:
Qui sono tutte mescolate:
speranza, timore, tristezza, gioia!
Queste quattro passioni non soffiano forse violentemente come i quattro venti cardinali:
la gioia da oriente, la tristezza da occidente, la speranza da mezzogiorno, la paura da
settentrione? Da esse è sconvolto il nostro mare, che ora sale fino al cielo per la