Page 23 - Teologia Mistica
P. 23
La ventitreesimo considerazione espone la difficoltà e la fatica
della meditazione rifacendosi agli esempi filosofici e poetici
di Orfeo, di Virgilio e di Ercole.
La meditazione incontra difficoltà perché si sforza di andare oltre le sensazioni
presenti o le immagini che ci vengono incontro senza ordine, oppure di rimanere fissa
su un punto.
Ogni uomo dotto sperimenta spesso in se stesso come sia difficile mantenere la
riflessione attentamente rivolta a qualcosa senza svagarsi verso altri oggetti. Ora, ciò
facendo la riflessione già si trasforma in meditazione, non perché cessi la riflessione, ma
perché cessa di essere riflessione. Così tutti sanno che i moti dei diversi sensi sono
fortissimi, e che il flusso delle immagini è continuo. Perciò è molto faticoso, per chi non
vi è abituato e addestrato, vincere il moto dei sensi o contenere, arrestare o passar oltre
il flusso delle immagini e costringere entro determinati limiti la propria riflessione su
qualcosa di preciso; ed è impossibile riuscirvi senza l’aiuto di Colui che chiude il mare
entro confini precisi e pone argine ai suoi flutti [cfr. Sal 103,9], «racchiudendo come in
un otre le sue acque» [Sal 32,7]. E questa difficoltà aumenta e la fatica diventa
inimmaginabile quando l’animo si sforza di spogliare la propria riflessione
dall’involucro degli accidenti, cioè dalle circostanze di luogo, di tempo ecc. che il senso
ci offre, in modo che le essenze delle cose appaiano sciolte da tutto e nude, come se non
fossero immerse nel tempo e nello spazio. Il divino Agostino adduce l’esempio della
considerazione della verità e della bontà: quando ci sforziamo di meditarle nella loro
purezza, subito ci viene in mente questa o quella bontà e questa o quella verità
particolare, e la nostra riflessione assume le circostanze di tempo e di luogo, di cui parla
il Filosofo specialmente nel primo libro della Metafìsica.
Ritengo che facciano al caso nostro certi miti e fantasie poetiche, come il mito del
citaredo Orfeo e di Euridice, in cui Orfeo si sforza di ricondurre Euridice, precipitata
negli inferi, alle regioni superiori; e il mito virgiliano di Enea, il quale, dopo essere
sfuggito alla tempesta del mare ed aver addormentato Cerbero, fa il viaggio ai Campi
Elisi e lì conosce quel che dovrà accadere. Infatti questi scrittori, che l’antichità
considerò teologi, non parlano a vanvera.
Orfeo è l’uomo dedito alla sapienza, che con le melodie di una cetra d’oro o
d’avorio, cioè con la debita e armonica composizione dei costumi, blocca i torrenti dei
desideri impetuosi e placa e rende docili i sentimenti ferini e brutali, e infine costringe
le aspre selve delle inclinazioni malvagie, sia innate sia acquisite, ad obbedire al
comando della volontà. Questo Orfeo ha come sposa Euridice, quella sapienza che il
Saggio si gloriava di aver cercato come sposa; oppure, più appropriatamente, possiamo
intendere Euridice come la facoltà dell’intelletto, data agli uomini affinché pensino alle
realtà superiori. Questa facoltà, mentre vaga per i prati in fiore degli oggetti piacevoli,
sarà morsa dal serpente della voluttà nascosto fra l’erba della bellezza. (Anche
Aristotele dice che la voluttà ha rubato l’intelletto al sapiente un po’ tardo). Quel morso
trascina Euridice agli inferi, dove essa pensa solo a tali realtà infime, di esse sole si
interessa, non potendo dire con l’Apostolo: «la nostra conversatio è nei cieli» [Fil 3,20].
Così, ferita e condotta agli inferi Euridice (la facoltà dell’intelletto) dal morso del
serpente — come (cito alla lettera) la tentazione del serpente precipitò i nostri
progenitori, per quanto dotati di ogni sapienza, nel baratro di quell’immensa miseria che
i poeti hanno raffigurato appropriatamente nella metafora degli inferi —, il saggio Orfeo
piange la moglie perduta e cerca di riportarla nel mondo dei viventi. Mentre egli canta e