Page 94 - Confessioni
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33. 50. Talora esagero invece nella cautela contro questo tranello e pecco per eccesso di severità, ma
molto raramente. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa ogni melodia delle
soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti mi sembra più
sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi
faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina a una
declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi
strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non
il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di
nuovo la grande utilità di questa pratica. Così ondeggio fra il pericolo del piacere e la constatazione dei
suoi effetti salutari, e inclino piuttosto, pur non emettendo una sentenza irrevocabile, ad approvare l’uso
del canto in chiesa, con l’idea che lo spirito troppo debole assurga al sentimento della devozione
attraverso il diletto delle orecchie. Ciò non toglie che quando mi capita di sentirmi mosso più dal canto
che dalle parole cantate, confessi di commettere un peccato da espiare, e allora preferirei non udir cantare.
Ecco il mio stato. Piangete dunque con me e per me piangete voi che in cuore avete con voi del bene e lo
traducete in opere: perché voi che non ne avete, non vi sentite toccare da queste parole. E tu, Signore Dio
mio, esaudiscimi, guarda e vedi e commisera e guariscimi. Sono diventato per me sotto i tuoi occhi un
problema, e questa appunto è la mia debolezza.
e) la vista.
34. 51. Rimane il piacere di questi occhi della mia carne. Ne farò una confessione, che vorrei giungesse
alle orecchie del tuo tempio, orecchie fraterne e pietose. Così concluderemo le tentazioni della
concupiscenza carnale che ancora mi assalgono, mentre gemo e desidero essere rivestito della mia
abitazione celeste. Gli occhi amano le forme belle e varie, i colori nitidi e ridenti. Ma non avvincano
questi oggetti la mia anima. L’avvinca Dio, che fece sì questi oggetti buoni assai, ma è lui solo il mio
bene, non essi. Per tutto il giorno, finché ho gli occhi aperti, mi raggiungono senza darmi tregua, mentre
me ne dànno le voci che cantano e talora, nel silenzio, tutte le voci. La regina stessa dei colori, la luce,
inondando tutto ciò che si vede, dovunque io sia durante il giorno, mi raggiunge in mille modi e mi
accarezza, anche quando, intento ad altro, non bado ad essa. S’insinua con tale vigore, che, se viene a
mancare all’improvviso, la ricerco avidamente, e se si assenta a lungo, il mio animo si rattrista.
34. 52. O Luce, che vedeva Tobia quando, questi occhi chiusi, insegnava al figlio la via della vita e lo
precedeva col piede della carità senza mai perdersi; che vedeva Isacco con i lumi della carne sommersi e
velati dalla vecchiaia, quando meritò non già di benedire i figli riconoscendoli, ma di riconoscerli
benedicendoli; che vedeva Giacobbe quando, privato anch’egli della vista dalla grande età, spinse i raggi
del suo cuore illuminato sulle generazioni del popolo futuro prefigurate nei suoi figliuoli, e impose sui
nipoti avuti da Giuseppe le mani arcanamente incrociate, non come il loro padre cercava di correggerlo
esternamente, ma come lui distingueva internamente. Questa è la Luce, è l’unica Luce, e un’unica cosa
coloro che la vedono e l’amano. Viceversa questa luce corporale di cui stavo parlando insaporisce la vita
ai ciechi amanti del secolo con una dolcezza suadente, ma pericolosa. Quando invece hanno imparato a
lodarti anche per essa, Dio creatore di tutto, l’attirano nel tuo inno anziché farsi catturare da essa nel loro
sonno. Così vorrei essere. Resisto alle seduzioni degli occhi nel timore che i miei piedi, con cui procedo
sulla tua via, rimangano impigliati, e sollevo verso di te i miei occhi invisibili, affinché tu strappi dal
laccio i miei piedi, come fai continuamente, poiché vi si lasciano allacciare. Tu non cesserai di strapparli
di là, mentre io ad ogni passo son fermo nelle tagliole sparse dovunque, perché tu non dormirai né
sonnecchierai, custode d’Israele.
34. 53. Quante cose, da non poterle enumerare, gli uomini aggiunsero alle naturali attrattive degli occhi
mediante varie arti e mestieri nelle vesti, nelle calzature, in vasi e prodotti d’ogni genere, e poi nei dipinti
e nelle diverse raffigurazioni che vanno ben oltre la necessità, la misura e un significato pio! Seguendo
esteriormente le loro creazioni, gli uomini abbandonano interiormente il loro Creatore e distruggono ciò
che di loro creò. Ma io, Signore mio e onore mio, traggo anche di qui un inno per te e una lode da offrire
in sacrificio a Chi mi santifica. La bellezza che attraverso l’anima si trasmette alle mani dell’artista
proviene da quella bellezza che sovrasta le anime, cui l’anima mia sospira giorno e notte. Ma chi fabbrica
e cerca le bellezze esteriori, trae di là la norma per giudicarne il valore, non trae di là la norma per farne
buon uso. Eppure c’è, e non la vedono; diversamente non andrebbero tanto lontano e preserverebbero la
loro forza presso di te, anziché disperderla in amenità sfibranti. Io stesso, che lo dico e lo vedo, lascio
cogliere il mio passo al laccio delle bellezze esteriori; ma tu lo strappi di là, Signore, lo strappi tu, perché
la tua misericordia è davanti ai miei occhi. Io mi lascio prendere miseramente, e tu mi liberi
Agostino – Confessioni pag. 92 di 134