Page 58 - Confessioni
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19. 25. Ma io pensavo diversamente. Per me Cristo mio signore non era che un uomo straordinariamente
sapiente e senza pari. Soprattutto la sua nascita miracolosa da una vergine, ov’è indicato il disprezzo dei
beni temporali come condizione per ottenere l’immortalità, mi sembrava avesse guadagnato al suo
magistero, grazie alla sollecitudine di Dio verso di noi, un’autorità grandissima. Ma il mistero racchiuso in
quelle parole: Il Verbo fatto carne, non potevo nemmeno sospettarlo. Soltanto sapevo di lui le notizie
tramandate dalle Scritture: che mangiò e bevve, dormì, camminò, provò gioia e tristezza, conversò; che
quella carne non si unì al tuo Verbo senza un’anima e un’intelligenza umane: cose che sa chiunque sa che
il tuo Verbo è immutabile, come ormai io lo sapevo nella misura delle mie forze, ma senza ombra di
dubbio. In verità, il muovere ora le membra del corpo in forza della volontà, ora non muoverle, il sentire
ora un sentimento, ora non sentirlo, l’esprimere ora a parole concetti saggi, ora tacere, sono atti propri di
un’anima e di una mente mutevoli; e se si fosse scritto di lui tutto ciò mentendo, anche il resto rischiava di
essere falso, e in quei testi non rimaneva più alcuna salvezza per il genere umano attraverso la fede.
Quindi erano scritti veri, e perciò io riconoscevo in Cristo un uomo completo, ossia non soltanto il corpo
di un uomo, o un’anima e un corpo senza intelligenza, ma un uomo vero, da anteporre secondo me a tutti
gli altri non perché fosse la verità in persona, ma in virtù di un’eccellenza singolare della sua natura
umana, e di una partecipazione più perfetta alla sapienza. Quanto ad Alipio, si era fatto l’idea che i
cattolici nel credere a un Dio rivestito di carne credessero all’esistenza in Cristo di Dio e della carne
soltanto, mentre l’anima e l’intelligenza umane pensava non gli fossero attribuite. Persuaso poi che le
opere a lui ascritte dalla tradizione non possono compiersi se non da una creatura vitale e razionale,
procedeva appunto verso la fede cristiana piuttosto lentamente. Solo più tardi venne a sapere che questa è
la concezione erronea degli eretici apollinaristi, e si uniformò con gioia alla fede cattolica. Io da parte mia
confesso di aver capito alquanto più tardi come nei riguardi della frase: Il Verbo si è fatto carne, la verità
cattolica si stacchi dalla menzogna di Fotino. Davvero, la condanna degli eretici dà spicco al pensiero
della tua Chiesa e alla sostanza del suo sano insegnamento. Dovettero prodursi infatti anche delle eresie,
affinché si vedesse chi era saldo nella fede tra i deboli.
Fede senza umiltà
20. 26. Però allora, dopo la lettura delle opere dei filosofi platonici, da cui imparai a cercare una verità
incorporea; dopo aver scorto quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato, e aver
compreso a prezzo di sconfitte quale fosse la verità che le tenebre della mia anima mi impedivano di
contemplare, fui certo che esisti, che sei infinito senza estenderti tuttavia attraverso spazi finiti o infiniti, e
che sei veramente, perché sei sempre il medesimo, anziché divenire un altro o cambiare in qualche parte o
per qualche moto; mentre tutte le altre cose sono derivate da te, come dimostra questa sola saldissima
prova, che sono. Di tutto ciò ero dunque certo, ma troppo debole ancora per goderti. Cianciavo, sì, come
fossi sapiente; ma, se non avessi cercato la tua via in Cristo nostro salvatore, non sapiente ma morente
sarei stato ben presto. Mi aveva subito preso la smania di apparire sapiente, mentre ero ricco del mio
castigo e non ne avevo gli occhi gonfi di pianto, ma io invece ero tronfio per la mia scienza. Dov’era
quella carità che edifica sul fondamento dell’umiltà, ossia Gesù Cristo? Quando mai quei libri avrebbero
potuto insegnarmela? Credo che la ragione, per cui volesti che m’imbattessi in quelli prima di meditare le
tue Scritture, fosse d’incidere nella mia memoria le impressioni che mi diedero, così che, quando poi i tuoi
libri mi avessero ammansito e sotto la cura delle tue dita avessi rimarginato le mie ferite, sapessi
discernere e rilevare la differenza che intercorre fra la presunzione e la confessione, fra coloro che vedono
la meta da raggiungere, ma non vedono la strada, e la via che invece porta alla patria beatificante, non
solo per vederla, ma anche per abitarla. Plasmato all’inizio dalle tue sante Scritture, assaporata la tua
dolcezza nel praticarle e imbattutomi dopo in quei volumi, forse mi avrebbero sradicato dal fondamento
della pietà; oppure, quand’anche avessi persistito nei sentimenti salutari che avevo assorbito, mi sarei
immaginato che si poteva pure derivarli dal solo studio di quei libri.
Avidissima e benefica lettura dell’apostolo Paolo
21. 27. Mi buttai dunque con la massima avidità sulla venerabile scrittura del tuo spirito, e prima di tutto
sull’apostolo Paolo. Scomparvero ai miei occhi le ambiguità, ove mi era sembrato che il testo del suo
discorso fosse talora incoerente e contrastante con le testimonianze della Legge e dei Profeti; mi apparve
l’unico volto delle espressioni pure e imparai a esultare con apprensione. Iniziata la lettura, trovai che
quanto di vero avevo letto là, qui è detto con la garanzia della tua grazia, affinché chi vede non si vanti,
quasi non abbia ricevuto non solo ciò che vede, ma la facoltà stessa di vedere. Cos’ha infatti, che non
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