Page 49 - Confessioni
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Progetti di vita in comune fra amici
                  14.  24.  Eravamo  molti  amici,  che  per  avversione  alle  noie  e  ai  disturbi  della  vita  umana  avevamo
                  progettato, discusso e già quasi deciso di ritirarci a vivere in pace lontano dalla folla. Si era organizzato il
                  nostro ritiro così: tutti i beni che mai possedessimo, sarebbero stati messi in comune, costituendosi, di
                  tutti,  un  patrimonio  solo.  In  tale  maniera,  per  la  nostra  schietta  amicizia  non  ci  sarebbero  stati  beni
                  dell’uno o dell’altro, ma un’unica sostanza, formata da tutti; questa sostanza collettiva sarebbe stata di
                  ognuno, e tutte le sostanze sarebbero state di tutti. A nostro parere ci saremmo potuti riunire in una decina
                  di persone, alcune delle quali molto facoltose, specialmente Romaniano, mio concittadino e amicissimo
                  fin dall’infanzia, allora condotto alla corte dal turbine gravoso dei suoi affari. Era lui anzi a insistere più di
                  tutti per l’attuazione del progetto, e le sue sollecitazioni avevano un peso notevole a causa del suo ingente
                  patrimonio, superiore di molto a tutti gli altri. Avevamo anche stabilito che anno per anno due di noi si
                  occuperebbero, come magistrati, di provvedere tutto il necessario agli altri, invece tranquilli. Ma quando
                  si venne a considerare se le donnicciuole, che alcuni di noi avevano già in casa e che noi desideravamo
                  prendere, avrebbero dato il loro assenso, l’intero progetto, così ben formulato, ci andò in pezzi fra mano e
                  fu gettato, infranto, in un angolo. Così tornammo ai nostri sospiri, ai nostri gemiti, ai nostri passi sulle
                  strade ampie e battute del mondo, poiché molti pensieri passavano nel nostro cuore, mentre il tuo disegno
                  sussiste eternamente. Dall’alto di quel disegno deridevi le nostre decisioni e preparavi le tue, attendendo
                  di darci il cibo al momento opportuno, di aprire la mano e saziare le nostre anime con la tua benedizione.

                  Una nuova donna

                  15. 25. Frattanto i miei peccati si moltiplicavano, e quando mi fu strappata dal fianco, quale ostacolo alle
                  nozze,  la  donna  con  cui  ero  solito  coricarmi,  il  mio  cuore,  a  cui  era  attaccata,  ne  fu  profondamente
                  lacerato e sanguinò a lungo. Essa partì per l’Africa, facendoti voto di non conoscere nessun altro uomo e
                  lasciando con me il figlio naturale avuto da lei. Ma io, sciagurato, incapace d’imitare una femmina e di
                  pazientare quei due anni di attesa finché avrei avuto in casa la sposa già richiesta, meno vago delle nozze
                  di quanto fossi servo della libidine, mi procurai un’altra donna, non certo moglie, quale alimento, quasi,
                  che prolungasse, intatta o ancora più vigorosa, la malattia della mia anima, vegliata da una consuetudine
                  che  doveva  durare  fino  al  regno  della  sposa.  Non  guariva  per  questo  la  ferita  prodotta  in  me
                  dall’amputazione della compagna precedente; però, dopo il bruciore e lo strazio più aspro, imputridiva, e
                  la sofferenza, perché più gelida, era anche più disperata.


                  Il massimo dei beni e dei mali

                  16. 26. Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie. Io mi facevo più miserabile, e tu più vicino. Ormai,
                  ormai  era  accostata  la  tua  mano,  che  mi  avrebbe  tolto  e  levato  dal  fango,  e  io  lo  ignoravo.  Solo,  a
                  trattenermi dallo sprofondare ulteriormente nel gorgo dei piaceri carnali, stava il timore della morte e del
                  tuo  giudizio  futuro,  mai  dileguato  dal  mio  cuore  pur  nel  variare  delle  mie  opinioni.  Con  i  miei  amici
                  Alipio e Nebridio mi ero messo a discutere sul massimo dei beni e dei mali. Per me, dicevo, avrebbe
                  ricevuto  la  palma  Epicuro,  se  non  avessi  creduto  alla  sopravvivenza  dell’anima  e  al  prolungarsi  delle
                  nostre azioni oltre la morte, ciò che Epicuro si rifiutò di credere; e domandavo perché mai l’immortalità e
                  una vita trascorsa in perpetua voluttà del corpo, senza alcun timore di perderla, non dovrebbero renderci
                  felici,  o  che  altro  dovremmo  cercare.  Non  riflettevo  che  l’incapacità  stessa  di  immaginare,  perché
                  sprofondato nella cecità, la luce della virtù e di una bellezza che si fa abbracciare da sé sola, invisibile
                  all’occhio  della carne, visibile all’intimo dello spirito, è parte di una grande miseria. Né mi chiedevo,
                  nella mia miseria, da quale fonte mi fluiva il diletto che pure provavo a discutere di argomenti così laidi
                  con gli amici. Senza amici non avrei potuto essere felice nemmeno nel senso che davo allora alla parola,
                  con la massima abbondanza delle soddisfazioni carnali. Sì, io amavo quegli amici disinteressatamente e
                  mi sentivo a mia volta amato disinteressatamente da loro. Ma ahimè, quali vie tortuose! Guai all’anima
                  temeraria, che sperò di trovare di meglio allontanandosi da te. Vòltati e rivòltati sulla schiena, sui fianchi,
                  sul ventre, ma tutto è duro, e tu solo il riposo. Ed eccoti, sei qui, ci liberi dai nostri errori miserabili e ci
                  metti sulla tua strada e consoli e dici: “Correte, io vi reggerò, io vi condurrò al traguardo e là ancora io vi
                  reggerò”.









                  Agostino – Confessioni                                                    pag. 47 di 134
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