Page 48 - Confessioni
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11. 20. Fra questi discorsi, fra questi venti alterni, che spingevano il mio cuore or qua or là, passava il
                  tempo e io tardavo a rivolgermi verso il Signore. Differivo di giorno in giorno l’inizio della vita in te, ma
                  non differivo la morte giornaliera in me stesso. Per amore della vita felice temevo di trovarla nella sua
                  sede e la cercavo fuggendola. Mi sembrava che sarei stato troppo misero senza gli amplessi di una donna;
                  non ponevo mente al rimedio che ci porge la tua misericordia per guarire da quell’infermità, poiché non
                  l’avevo mai sperimentato. Pensavo che la continenza si ottiene con le proprie forze, e delle mie non ero
                  sicuro. A tal segno ero stolto, da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente, se tu non
                  lo concedi. E tu l’avresti concesso, se con gemito interiore avessi bussato alle tue orecchie e con salda
                  fede avessi lanciato in te la mia pena.


                  Il problema del matrimonio

                  12. 21. Alipio mi sconsigliava, per la verità, di prendere moglie: se lo avessi fatto, mi ripeteva su tutti i
                  toni, non avremmo potuto assolutamente vivere assieme e indisturbati, nel culto della sapienza, come da
                  tempo desideravamo. Personalmente egli osservava fin da allora una castità assoluta, e questa condotta era
                  tanto più ammirevole, in quanto nei primi anni della sua adolescenza aveva sperimentato il piacere della
                  carne.  Però  non  vi  era  rimasto  invischiato:  ne  aveva  avuto  piuttosto  rimorso  e  disprezzo,  e  da  allora
                  viveva ormai in una continenza assoluta. Io gli opponevo l’esempio di quanti, coniugati, avevano coltivato
                  gli studi, guadagnato meriti presso Dio e conservato fedeltà d’affetti verso gli amici. Senonché per mio
                  conto ero lontano da tanta magnanimità. Avvinto alla mia carne ammorbata, ne trascinavo la catena con
                  un godimento mortale, timoroso che si sciogliesse e respingendo, quasi rimescolasse la piaga, la mano
                  liberatrice dei buoni consigli. Ma c’era di più: per mia bocca il serpente parlava allo stesso Alipio e lo
                  accalappiava, disseminando sulla sua strada per mezzo della mia lingua dolci lacci, ove impigliare i suoi
                  onesti e liberi piedi.

                  12. 22. Egli si stupiva che io, non poco stimato da lui, fossi invischiato nel piacere a tal punto, da asserire,
                  quando se ne discuteva fra noi, che non avrei potuto assolutamente condurre una vita celibe; ed io, al
                  vedere il suo stupore, mi difendevo sostenendo che passava una bella differenza tra le sue momentanee e
                  furtive esperienze, rese innocue e facilmente disprezzabili dal ricordo ormai quasi svanito, e i diletti della
                  mia  consuetudine,  cui  mancava  soltanto  l’onorato  titolo  di  matrimonio  per  togliergli  ogni  ragione  di
                  stupore, se non riuscivo a spregiare quella vita. Alla fine era entrato in corpo anche a lui il desiderio di
                  sposare,  facendo  breccia  non  tanto  con  la  lusinga  del  piacere,  quanto  con  quella  della  curiosità.  Era
                  curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com’era, a me non
                  sembrerebbe  più  una  vita,  ma  un  tormento.  Il  suo  animo,  libero  da  legame,  si  meravigliava  della  mia
                  schiavitù,  e  la  meraviglia  lo  stuzzicava  a  farne  esperienza.  Ma,  venuto  appunto  all’esperienza,  forse
                  sarebbe caduto nella schiavitù di cui si meravigliava: cercava di stringere un patto con la morte, e chi ama
                  il  pericolo,  vi  cadrà.  Certo  nessuno  di  noi  due  era  gran  che  mosso  dalla  dignità coniugale, quale può
                  consistere  nel  compito  di  guidare  un  matrimonio  e  di  allevare  dei  figli:  io,  per  essere  soprattutto  e
                  duramente schiavo torturato dell’abitudine di appagare l’inappagabile sensualità; lui, per essere trascinato
                  alla schiavitù dal fascino dell’ignoto. Tale il nostro stato, finché tu, altissimo, che non abbandoni il nostro
                  fango, impietosito dalla nostra condizione pietosa, ci venisti in aiuto in modi mirabili e segreti.


                  Fidanzamento di Agostino

                  13. 23. Intanto mi si sollecitava instancabilmente a prendere moglie. Così ne avevo ormai avanzato la
                  richiesta e ottenuta la promessa. Chi lavorava maggiormente in questo senso era mia madre, con l’idea
                  che, una volta sposato, il lavacro salutare del battesimo mi avrebbe ripulito. Gioiva che io vi fossi ogni
                  giorno meglio disposto, e nella mia fede riconosceva il compiersi dei suoi voti e delle tue promesse. Su
                  mia richiesta e per sua stessa inclinazione ti supplicava quotidianamente con l’ardente grido del cuore
                  perché tu le facessi in sogno qualche rivelazione sul mio futuro matrimonio, ma non volesti mai esaudirla.
                  Aveva, sì, delle visioni, però inconsistenti e bizzarre, prodotte dalla tensione del suo spirito umano in
                  angustie  per  quell’evento.  Me  le  descriveva  senza  la  fiducia  a  lei  abituale  quando  aveva  una  tua
                  rivelazione, bensì con disprezzo. A suo dire, ella sapeva discernere da non so quale sapore, che a parole
                  era incapace di spiegare, la differenza fra le tue rivelazioni e i sogni della sua anima. Ciò nonostante si
                  insisteva, e la fanciulla fu richiesta. Le mancavano ancora due anni all’età da marito, però piaceva a tutti,
                  e così si aspettava.






                  Agostino – Confessioni                                                    pag. 46 di 134
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