Page 44 - Confessioni
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grande tuttavia di quanto non sarebbe stato, se ad essi fosse mancato un prestigio così eminente e una
santità così umile, da attrarre nel proprio grembo le turbe. Mentre andavo così riflettendo, tu mi eri vicino,
udivi i miei sospiri, mi guidavi nei miei ondeggiamenti, mi accompagnavi nel mio cammino attraverso
l’ampia strada del mondo.
Un mendicante felice
6. 9. Cercavo avidamente onori, guadagni, nozze, e tu ne ridevi. Per colpa di queste passioni soffrivo
disagi amarissimi, ma la tua benignità era tanto più grande, quanto meno dolce mi facevi apparire ciò che
tu non eri. Guarda il mio cuore, Signore, per il cui volere rievoco e ti confesso questi fatti. Si unisca ora a
te la mia anima, che hai estratta dal vischio tenacissimo della morte. Quanto era misera! E tu stuzzicavi il
bruciore della piaga perché, lasciando tutto, si rivolgesse a te, che sei sopra tutto e senza di cui tutto
sarebbe nulla; perché si volgesse a te e fosse guarita. Quanto ero misero, dunque, e tu come hai operato
per farmi sentire la mia miseria! Quel giorno mi preparavo a recitare un elogio dell’imperatore, infarcito
di menzogne, ma capace di conciliare al mentitore i favori di altre persone, ben consapevoli. Il cuore
ansimante di preoccupazioni e riarso dalle febbri di rovinosi pensieri, nel percorrere un vicolo milanese
scorsi un povero mendicante, che, credo, oramai saturo di vino, scherzava allegramente. Sospirando feci
rilevare agli amici che mi accompagnavano le molte pene derivanti dalle nostre follie: tutti i nostri sforzi,
quali quelli che proprio allora sostenevo traendo sotto il pungolo dell’ambizione il fardello della mia
insoddisfazione e ingrossandolo per via, a che altro miravano, se non al traguardo di una gioia sicura, ove
quel povero mendico ci aveva già preceduti e noi, forse, non saremmo mai arrivati? Il risultato che egli
aveva ottenuto con ben pochi e accattati soldarelli, ossia il godimento di una felicità temporale, io
inseguivo attraverso anfratti e tortuosità penosissime. Egli non possedeva, evidentemente, la vera gioia;
ma anch’io con le mie ambizioni ne cercavo una più fallace ancora, e ad ogni modo egli era allegro, io
angosciato, egli sicuro, io ansioso. Richiesto di dire se preferivo l’esultanza o il timore, avrei risposto:
“L’esultanza”; ma se poi mi fosse stato chiesto: “Preferiresti essere come costui, o come sei tu ora?”, avrei
scelto di essere com’ero, stremato d’affanni e timori. Quale perversione! Infatti secondo ragione non avrei
dovuto anteporre al mendico la mia più vasta cultura, se non ne ricavavo motivi di gioia, bensì la
impiegavo per piacere agli uomini, non ammaestrandoli, ma solo dilettandoli. Perciò tu col bastone della
tua scuola spezzavi le mie ossa.
6. 10. Si allontani dunque dalla mia anima chi le dice: “Bisogna considerare la fonte del godimento in un
uomo. Il mendico lo traeva dall’ebbrezza, tu lo cercavi nella gloria”. Quale gloria, Signore? Una gloria
estranea a te. Se non era vera gioia quella del mendico, neppure la mia gloria era vera, e contribuiva a
traviare la mia mente. Inoltre il mendico avrebbe smaltito la sua ebbrezza nel giro della notte seguente; io
con la mia mi ero addormentato e destato, mi sarei addormentato e destato, guarda quanti giorni! Certo
bisogna considerare la fonte del godimento in un uomo, lo so. Il godimento di una speranza pia è
incomparabilmente distante dalla gioia vana del mendico. Però allora c’era un’altra distanza fra noi due:
egli era certamente il più felice non solo perché inondato dall’ilarità, mentre io ero disseccato dagli
affanni, ma anche perché egli si era procurato il vino con auguri di bene, mentre io ricercavo la vana
gloria con menzogne. In questo senso parlai allora lungamente con i miei amici, e spesso poi osservai le
mie reazioni in circostanze analoghe, constatando che mi sentivo a disagio e soffrivo, così raddoppiando il
disagio stesso. Se poi a volte la fortuna mi arrideva, riluttavo a coglierla, poiché se ne volava via quasi
prima che potessi afferrarla.
Fra amici
Alipio discepolo affezionato di Agostino
7. 11. Così conversavamo gemendo fra noi amici, accomunati dalla medesima vita. Ma più che con gli
altri e con maggiore confidenza discorrevo di queste cose con Alipio e Nebridio. Alipio, nativo del mio
stesso paese e figlio di genitori colà eminenti, era più giovane di me, e infatti era stato alunno alla mia
scuola nei primi tempi del mio insegnamento sia in patria, sia poi a Cartagine. Mi amava molto,
credendomi virtuoso e dotto, e io lo ricambiavo con pari affetto a motivo della sua indole fortemente e
visibilmente inclinata alla virtù fin da giovane età. Ciò nonostante il vortice della moda cartaginese,
fervida di spettacoli frivoli, lo aveva inghiottito con una passione forsennata per i giochi del circo. Però al
tempo in cui vi era miseramente sballottato, non frequentava ancora le lezioni di retorica che io tenevo
pubblicamente, a motivo di certi dissapori sorti fra me e suo padre. Venuto a conoscenza della sua funesta
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