Page 38 - Confessioni
P. 38

mai più risanato: perché non so esprimere adeguatamente i suoi sentimenti verso di me e quanto il suo
                  travaglio nel partorirmi in spirito fosse maggiore di quello con cui mi aveva partorito nella carne.


                  Le preghiere di Monica

                  9. 17. Non vedo davvero come si sarebbe risanato, se la mia morte in quello stato avesse trafitto le viscere
                  del suo amore. Dove sarebbero finite le preghiere così ferventi che ripeteva senza interruzione? Presso di
                  te, non altrove; ma avresti potuto tu, Dio delle misericordie, sprezzare il cuore contrito e umiliato di una
                  vedova casta e sobria, assidua nell’elemosina, devota e sottomessa ai tuoi santi; che non lasciava passare
                  giornata senza recare l’offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, senza fallo visitava la
                  tua chiesa, e non per confabulare vanamente e chiacchierare come le altre vecchie, ma per udire le tue
                  parole e farti udire le sue orazioni? Le lacrime di una tale donna, che con esse ti chiedeva non oro né
                  argento, né beni labili o volubili, ma la salvezza dell’anima di suo figlio, avresti potuto sdegnarle tu, che
                  così l’avevi fatta con la tua grazia, rifiutandole il tuo soccorso? Certamente no, Signore. Tu anzi le eri
                  accanto e l’esaudivi, operando secondo l’ordine con cui avevi predestinato di dover operare. Lungi da me
                  il pensiero che avresti potuto ingannarla nelle sue visioni e nei tuoi responsi, già ricordati e non ricordati
                  da me, che ella serbava nel suo cuore fedele e ti presentava nelle sue orazioni incessanti come impegni
                  firmati  di  tua  mano.  Infatti  nell’eternità  della  tua  misericordia  tu  accetti  d’indebitarti  con  coloro  cui
                  condoni tutti i debiti.


                  Rapporti con i manichei romani

                  10.  18.  Così  mi  guaristi  da  quella  infermità  e  salvasti  il  figlio  dell’ancella  tua,  allora  e  per  allora
                  fisicamente, per avere poi a chi porgere una salvezza più preziosa e sicura. Però anche a Roma mi tenevo
                  in contatto con quei falsi e fallaci santoni: non solo cioè con gli uditori, fra i quali si annoverava pure chi
                  mi ospitò malato e convalescente, bensì con gli eletti, come son chiamati. Ero tuttora del parere che non
                  siamo noi a peccare, ma un’altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l’essere
                  estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea
                  di peccato contro di te. Preferivo scusarmi accusando un’entità ignota, posta in me stesso senza essere me
                  stesso, mentre ero un tutto unico e mi aveva diviso contro me stesso la mia empietà. Ed era un peccato più
                  difficile da sanare il fatto che non mi ritenessi peccatore; ed era un’empietà esecrabile il preferire, Dio
                  onnipotente,  la  tua  sconfitta  dentro  di  me,  per  mia  rovina,  alla  mia  sconfitta  di  fronte  a  te,  per  mia
                  salvezza. Non avevi ancora collocato una custodia alla mia bocca e la porta del ritegno sulle mie labbra,
                  affinché  il  mio  cuore  non  uscisse  in  parole  maligne  per  offrire  scuse  da  scusare  i  peccati  insieme  a
                  uomini che operano il male. Perciò me l’intendevo ancora con i loro eletti, sebbene non sperassi più di
                  progredire in quella falsa dottrina. Anzi tenevo ormai con minore impegno e cura la posizione stessa ove
                  avevo deliberato di stare pago, se non trovavo nulla di meglio.

                  Scetticismo: la filosofia accademica
                  10.  19.  Mi  era  nata  infatti  anche  l’idea  che  i  più  accorti  di  tutti  i  filosofi  fossero  stati  i  cosiddetti
                  accademici, in quanto avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che
                  all’uomo la verità è totalmente inconoscibile. Allora mi sembrava che la loro dottrina fosse proprio quella
                  che  gli  si  attribuisce  comunemente,  poiché  non  capivo  ancora  il  loro  vero  intento.Così  rintuzzai
                  apertamente l’esagerata fiducia che, mi avvidi, il mio ospite riponeva nelle favole di cui sono pieni i libri
                  manichei. Tuttavia mantenevo rapporti di amicizia più con questi che con gli altri uomini alieni dalla loro
                  eresia; e se non la sostenevo con l’ardore di un tempo, però la familiarità con i suoi seguaci, occultati in
                  grande  numero  a  Roma,  mi  rendeva  meno  solerte  nella  ricerca  di  altro,  tanto  più  che  non  speravo  di
                  trovare nella tua Chiesa, Signore del cielo e della terra, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, la
                  verità, da cui essi mi avevano allontanato. Mi sembrava sconvenientissimo credere che tu hai la figura
                  della  carne  umana  e  sei  circoscritto  nei  limiti  materiali  delle  nostre  membra.  L’incapacità  di  pensare,
                  volendo pensare il mio Dio, a cosa diversa da una massa corporea, poiché mi pareva che nulla esistesse
                  senza un corpo, era la suprema e quasi unica ragione del mio inevitabile errore.


                  Il male concepito come sostanza






                  Agostino – Confessioni                                                    pag. 36 di 134
   33   34   35   36   37   38   39   40   41   42   43