Page 31 - Confessioni
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15. 27. Avevo forse ventisei o ventisette anni quando scrissi quei volumi, rivolgendo dentro di me le
elucubrazioni materialistiche che rumoreggiavano alle orecchie del mio cuore. Pure tendevo queste
orecchie, o dolce verità, alla tua melodia interiore nell’atto stesso di meditare sulla bellezza e la
convenienza. Il mio desiderio era di stare ritto innanzi a te, di udirti, di sentirmi preso dalla gioia alla
voce dello sposo; e non potevo realizzarlo poiché le voci del mio errore mi trascinavano fuori di me e il
peso del mio orgoglio mi faceva cadere verso il basso. Non davi infatti gioia e letizia al mio udito, né
esultavano le ossa, che non erano state ancora umiliate.
Lettura delle Dieci categorie di Aristotele
16. 28. E a che mi giovava l’aver letto e capito da solo, sui vent’anni, un’opera aristotelica venutami fra
mano, che chiamano Le dieci categorie? A pronunciarne soltanto il nome le gote del mio maestro
cartaginese di retorica, e di altre persone che passavano per erudite, si gonfiavano fino a scoppiare; perciò
io restavo là con la bocca aperta come davanti a cosa straordinaria e divina. Ne discussi poi con persone
che dicevano di averla capita a fatica, pur sotto la guida di maestri coltissimi e con l’ausilio non solo delle
loro parole, ma anche di molte figure tracciate sulla polvere; ma non riuscii a saperne più di quanto avevo
imparato da me solo, leggendola per mio conto. Mi sembrava che l’opera parlasse abbastanza chiaramente
delle sostanze, quale l’uomo, e delle loro proprietà, quale l’aspetto dell’uomo, come sia; la statura, di
quanti piedi sia; la relazione, di chi sia fratello; oppure dove sia stabilito, quando nato, se stia ritto o
seduto, se abbia i piedi calzati e armi indosso, se compia o subisca qualche azione, e insomma tutte le
innumerevoli qualità comprese nelle nove categorie di cui ho dato qualche esempio e nella categoria
stessa di sostanza.
16. 29. A che mi giovava ciò? Anzi, mi nuoceva addirittura. Convinto che quei dieci attributi
comprendono perfettamente tutto ciò che esiste, mi sforzavo di capire anche te, Dio mio, essere
mirabilmente semplice e immutabile, come condizionato dalla tua grandezza e bellezza. Queste qualità mi
parevano sussistere in te come in un essere condizionato, come in un corpo, mentre tu medesimo sei la tua
grandezza e bellezza, invece i corpi non sono grandi e belli per loro natura. Potrebbero infatti essere meno
grandi e meno belli senza perdere per ciò la loro natura. Ogni mio concetto di te era falso, non vero; vana
immaginazione della mia miseria, non solida visione della tua beatitudine. L’avevi voluto, e così accadeva
in me che la terra producesse per me spine e triboli, e io ottenessi il pane a prezzo di fatiche.
Lettura di varie opere letterarie e scientifiche
16. 30. E a che mi giovava l’aver letto e capito da me tutti i trattati che potei delle arti cosiddette liberali,
se allora ero schiavo disonestissimo delle male passioni? Trovavo diletto nella loro lettura senza
conoscere la provenienza delle sicure verità in essi contenute, poiché volgevo il dorso al lume, il viso agli
oggetti illuminati: così il mio viso, se li vedeva illuminati, non era però illuminato. Quante nozioni di
eloquenza e dialettica, di geometria e musica e aritmetica intesi senza grande fatica e alcun
ammaestramento umano lo sai tu, Signore Dio mio, poiché la prontezza dell’intelletto e l’acume del
discernimento sono dono tuo. Ma non ne facevo offerta a te, quindi erano per me un potere più nocivo che
utile. Infatti m’industriai di rivendicare a me stesso la parte migliore della mia sostanza; anziché
preservare la mia forza presso di te, mi allontanai da te verso un paese lontano, ove dissiparla fra le
meretrici passioni. A che mi giovava invero l’uso non buono di una cosa buona? Non mi rendevo conto
delle grandi difficoltà che la comprensione di quelle dottrine presenta anche a studiosi d’ingegno, se non
quando mi sforzavo di spiegarle a loro, e il più eccellente fra loro era il meno tardo a capire la mia
spiegazione.
Inutilità dell’ingegno e della cultura separati da Dio
16. 31. A che mi giovava ciò, se, Signore Dio e verità, pensavo che tu fossi un corpo luminoso e immenso,
e io un frammento di quel corpo? Smisurata perversione! Eppure era il mio stato e non arrossisco, Dio
mio, di confessarti gli atti della tua misericordia verso di me e invocarti, come non arrossii allora di
professare davanti agli uomini le mie bestemmie latrando contro di te. A che mi giovava allora l’abile
destreggiarsi del mio ingegno attraverso le scienze, l’aver districato senza l’ausilio di maestri umani tanti
libri intricatissimi, se poi erravo con mostruosa e sacrilega infamia nella dottrina della tua pietà? Oppure,
perché tanto nuoceva ai tuoi piccoli un’intelligenza di gran lunga più tarda della mia, quando non si
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