Page 26 - Confessioni
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amico, a me dolce più di tutte le dolcezze della mia vita di allora.

                  Malattia e morte dell’amico
                  4. 8. Chi può da solo enumerare i tuoi vanti, che in sé solo ha conosciuto?. Che facesti tu allora, Dio mio?
                  Imperscrutabile abisso delle tue decisioni! Tormentato dalle febbri egli giacque a lungo incosciente nel
                  sudore della morte. Poiché si disperava di salvarlo, fu battezzato senza che ne avesse sentore. Io non mi
                  preoccupai  della  cosa  nella  presunzione  che  il  suo  spirito  avrebbe  mantenuto  le  idee  apprese  da  me,
                  anziché accettare un’azione operata sul corpo di un incosciente. La realtà invece era ben diversa. Infatti
                  migliorò  e  uscì  di  pericolo;  e  non  appena  potei  parlargli,  e  fu  molto  presto,  non  appena  poté  parlare
                  anch’egli, poiché non lo lasciavo mai, tanto eravamo legati l’uno all’altro, tentai di ridicolizzare ai suoi
                  occhi, supponendo che avrebbe riso egli pure con me, il battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto
                  assente col pensiero e i sensi, ma ormai sapeva di aver ricevuto. Egli invece mi guardò inorridito, come si
                  guarda un nemico, e mi avvertì con straordinaria e subitanea franchezza che, se volevo essere suo amico,
                  avrei dovuto smettere di parlare in quel modo con lui. Sbalordito e sconvolto, rinviai a più tardi tutte le
                  mie reazioni, in attesa che prima si ristabilisse e acquistasse le forze convenienti per poter trattare con lui
                  a  mio  modo.  Senonché  fu  strappato  alla  mia  demenza  per  essere  presso  di  te  serbato  alla  mia
                  consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è assalito nuovamente dalle febbri e spira.

                  Lo sconforto di Agostino
                  4. 9. L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era
                  per me un tormento la mia patria, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto
                  in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano
                  dovunque  senza  incontrarlo,  odiavo  il  mondo  intero  perché  non  lo  possedeva e non poteva più dirmi:
                  “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma.
                  Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna
                  risposta; e se le dicevo: “Spera in Dio”, a ragione non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva
                  perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano
                  dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito.

                  Misterioso conforto del pianto
                  5. 10. Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te,
                  che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l’orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa
                  riuscire  dolce  agli  infelici?  o  forse,  sebbene  ovunque  presente,  hai  respinto  lontano  da  te  la  nostra
                  infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non
                  potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere
                  dunque che dall’amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La
                  dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono
                  animate dal desiderio di giungere fino a te: ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come
                  quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell’amico alla
                  vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una
                  realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite?

                  Le ragioni della vita di fronte alla morte
                  6.  11.  Ma  perché  parlo  di  queste  cose?  Non  è  tempo,  questo,  di  porti  domande,  bensì  di  farti  le  mie
                  confessioni. Sì, ero infelice, e infelice è ogni animo avvinto d’amore alle cose mortali. Solo quando la loro
                  perdita lo strazia, avverte l’infelicità, di cui però era preda anche prima della loro perdita. Così avveniva
                  allora per me. Piangevo amarissimamente, e riposavo  nell’amarezza; mi sentivo infelicissimo, e avevo
                  cara la stessa vita infelice più dell’amico perduto. Avrei voluto mutarla, ma non avrei voluto perderla in
                  sua  vece.  Non  so  se  avrei  accettato  di  fare  anche  per  lui  come  Oreste  e  Pilade,  i  quali,  secondo  la
                  tradizione, se non è un’invenzione, avrebbero accettato di morire uno per l’altro o insieme, essendo per
                  loro peggio di quella morte il vivere non insieme. In me era sorto un sentimento indefinibile decisamente
                  contrario a questo, ove la noia, gravissima, della vita, in me si associava al timore della morte. Quanto più




                  Agostino – Confessioni                                                    pag. 24 di 134
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