Page 24 - Confessioni
P. 24
Libro quarto
INSEGNANTE PER NOVE ANNI A TAGASTE E CARTAGINE
Vanità di retore
Nove anni di superbia e superstizione manichea
1. 1. Trascorremmo questo periodo di nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, cadendo e traendo
in agguati, fra inganni subìti e attuati, in preda a diverse passioni, pubblicamente praticando
l’insegnamento delle discipline cosiddette liberali, occultamente una religione spuria, superbi nel primo,
superstiziosi nella seconda, in entrambi vani; attraverso il primo inseguendo una fama popolare vuota fino
agli applausi teatrali, ai certami poetici, a gare per una corona di fieno, a spettacoli frivoli e passioni
sregolate; attraverso la seconda cercando la purificazione da queste macchie mediante le vivande che
portavamo agli eletti e ai santoni, come li chiamavano, affinché nell’officina del loro ventricolo ne
fabbricassero per noi gli angeli e gli dèi nostri liberato-ri. Io seguivo queste pratiche, le compivo insieme
ai miei amici, ingannandoli e ingannandomi con loro. Subirò la derisione dei presuntuosi, coloro che non
hai ancora prostrati e schiacciati per il loro bene, Dio mio; ma ti confesserò ugualmente le mie infamie a
tua lode. Permettimi, ti scongiuro, concedimi di percorrere col ricordo presente gli antichi percorsi del
mio errore e di immolarti una vittima di giubilo. Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida
verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te,
vivanda incorruttibile? e chi è l’uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti;
noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te.
Vita pubblica e privata di Agostino in quegli anni
2. 2. In quegli anni insegnavo retorica: vinto cioè dalla mia passione, vendevo chiacchiere atte a vincere
cause. Tuttavia preferivo, Signore, tu sai, avere allievi buoni nel vero senso della parola, e a loro senza
inganno insegnavo inganni utili non a perdere un innocente, ma a salvare talvolta un reo. E tu, Dio, di
lontano vedesti vacillare sul viscidume la mia buona fede ed emettere tra denso fumo qualche sprazzo di
luce. Io la offrivo nel mio insegnamento a persone che amavano la vanità e cercavano la menzogna, senza
essere diverso da loro. Ancora in quegli anni tenevo con me una donna, non posseduta in nozze, come si
dicono, legittime, ma scovata nel vagolare della mia passione dissennata; una sola, comunque, e a cui
prestavo per di più la fedeltà di un marito. Sperimentai tuttavia di persona in questa unione l’enorme
divario esistente fra l’assetto di un patto coniugale stabilito in vista della procreazione, e l’intesa di un
amore libidinoso, ove pure la prole nasce, ma contro il desiderio dei genitori, sebbene imponga di amarla
dopo nata.
Avversione per le pratiche degli aruspici
2. 3. Ricordo pure che, avendo voluto partecipare a un concorso di poesia teatrale, un oscuro aruspice mi
fece chiedere quale ricompensa ero disposto a dargli, perché mi facesse vincere. Risposi che detestavo e
aborrivo le sue luride pratiche, e neppure se la corona fosse stata d’oro indistruttibile avrei permesso che
s’immolasse una mosca per la mia vittoria. Era infatti evidente che si preparava a immolare nei suoi
sacrifici alcuni animali nell’intento di attrarre su di me con tali omaggi i favori dei demòni. Rifiutai
dunque un simile misfatto, ma ancora una volta non in nome della tua illibatezza, Dio del mio cuore,
perché non sapevo amarti, non sapendo pensare a uno splendore privo di corpo: e un’anima che sospira
dietro a simili immaginazioni non tresca forse lontano da te, non poggia su falsità, non nutre i venti? Non
volevo certamente che s’immolassero vittime per me ai demòni; io stesso però m’immolavo a loro
mediante la mia superstizione: e che altro è “nutrire i venti”, se non nutrire i demòni, offrire cioè ad essi
col proprio errore motivi di godimento e derisione?
Ostinata devozione per l’astrologia
Agostino – Confessioni pag. 22 di 134