Page 19 - Confessioni
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4. 8. Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa tu volessi
                  fare di me. La sapienza sta presso di te, ma amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco
                  mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con
                  quel nome grande, fascinoso e onesto i propri errori. Ebbene, quasi tutti coloro che sia al suo tempo, sia
                  prima agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. Così vi è illustrato l’ammonimento
                  salutare che ci diede il tuo spirito per bocca del tuo servitore buono e pio: Attenti che nessuno v’inganni
                  mediante la filosofia e la vana seduzione propria della tradizione umana, propria dei princìpi di questo
                  mondo,  ma  non  propria  di  Cristo,  perché  in  Cristo  sussiste  tutta  la  pienezza  della  divinità
                  corporeamente.  A  quel  tempo,  lo  sai  tu,  lume  della  mia  mente,  io  ignoravo  ancora  queste  parole
                  dell’Apostolo; pure, una cosa sola bastava a incantarmi in quell’incitamento alla filosofia: le sue parole mi
                  stimolavano,  mi  accendevano,  m’infiammavano  ad  amare,  a  cercare,  a  seguire,  a  raggiungere,  ad
                  abbracciare vigorosamente non già l’una o l’altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov’era.
                  Così una sola circostanza mi mortificava, entro un incendio tanto grande: l’assenza fra quelle pagine del
                  nome di Cristo. Quel nome per tua misericordia, Signore, quel nome del salvatore mio, del Figlio tuo, nel
                  latte stesso della madre, tenero ancora il mio cuore aveva devotamente succhiato e conservava nel suo
                  profondo. Così qualsiasi opera ne mancasse, fosse pure dotta e forbita e veritiera, non poteva conquistarmi
                  totalmente.


                  Incontro deludente con le Sacre Scritture

                  5. 9. Perciò mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture, per vedere come fossero. Ed
                  ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un
                  andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l’ingresso o piegare il collo ai suoi
                  passi.  Infatti  i  miei  sentimenti,  allorché  le  affrontai,  non  furono  quali  ora  che  parlo.  Ebbi  piuttosto
                  l’impressione di un’opera indegna del paragone con la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la
                  sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell’opera è fatta per crescere con i piccoli; ma io
                  disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.

                  Adesione al manicheismo

                  Verità e menzogna

                  6. 10. Così finii tra uomini orgogliosi e farneticanti, carnali e ciarlieri all’eccesso. Nella loro bocca si
                  celavano i lacciuoli del diavolo e un vischio confezionato mescolando le sillabe del tuo nome con quelle
                  del Signore Gesù Cristo e del Paracleto, lo Spirito Santo nostro consolatore. Questi nomi erano sempre
                  sulle loro labbra, ma soltanto come suoni e strepito della lingua; per il resto il loro cuore era vuoto  di
                  verità. Ripetevano: verità, verità, e ne facevano un gran parlare con me, eppure mai la possedevano, e
                  dicevano  il  falso  non  su  te  soltanto,  che  sei  davvero  la  verità,  ma  altresì  su  questi  princìpi  di  questo
                  mondo, che da te sono creati, un argomento su cui avrei dovuto superare i filosofi anche quando dicevano
                  il vero, in nome del tuo amore, Padre mio sommamente buono, bellezza di ogni bellezza. O Verità, Verità,
                  come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva
                  spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi
                  che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur
                  sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature
                  spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature,
                  bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e
                  sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio
                  rivolgere senz’altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne,
                  che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza
                  avidità,  perché  nella  mia  bocca  non  avevi  il  tuo  reale  sapore,  non  essendo  davvero  tu  quelle  insulse
                  finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in
                  tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora
                  mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato.
                  Erano  fantasmi  corporei,  corpi  falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della
                  carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li
                  immaginiamo;  ed  anche  immaginandoli  li  vediamo  in modo più reale di quando muovendo da essi ne
                  supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza
                  pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in





                  Agostino – Confessioni                                                    pag. 17 di 134
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