Page 20 - Confessioni
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cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo
ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni
realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi,
che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l’anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è
indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola
virtù senza mai mutare, vita dell’anima mia.
6. 11. Dov’eri dunque allora, e quanto lontano da me? Io lontano da te vagavo escluso persino dalle
ghiande dei porci che di ghiande pascevo. Quanto sono preferibili le favolette dei maestri di scuola e dei
poeti, che quelle trappole! I versi, la poesia, Medea che vola, sono certo più utili dei cinque elementi
variamente trasformati per le cinque caverne delle tenebre, mere invenzioni, che però uccidono chi vi
crede. Dai versi, dalla poesia, posso anche trarre reale alimento. Se allora declamavo la storia di Medea
che vola, non la davo per vera, come non vi credevo io stesso sentendola declamare. Invece alle altre ho
creduto, per mia sventura; lungo quei gradini fui tratto sino agli abissi infernali, febbricitante, tormentato
dall’arsura della verità, mentre, Dio mio, lo riconosco davanti a te, che avesti misericordia di me quando
ancora non ti riconoscevo, mentre cercavo te non già con la facoltà conoscitiva della mente, per la quale
volesti distinguermi dalle belve, ma col senso della carne. E tu eri più dentro in me della mia parte più
interna e più alto della mia parte più alta. M’imbattei in quella donna avventata e sprovvista di saggez-za,
che nell’indovinello di Salomone sta sulla porta, seduta sopra una seggiola, e dice: “Assaporate i pani
riposti e gustate l’acqua rubata, così dolce”. Costei mi sedusse poiché mi trovò fuori, insediato
nell’occhio della mia carne e intento a ruminare fra me le cose che per quella via avevo ingerito.
La polemica manichea
7. 12. Ignaro infatti dell’altra realtà, la vera, ero indotto ad approvare quelle che sembravano acute
obiezioni dei miei stolti seduttori, quando mi chiedevano quale fosse l’origine del male, se Dio fosse
circoscritto da una forma corporea e avesse capelli e unghie, se si dovesse stimare giusto chi teneva
contemporaneamente più mogli, uccideva uomini e sacrificava animali. Io, ignorante in materia, ne
rimanevo scosso. Mentre mi allontanavo dalla verità, credevo di camminare verso di lei, senza sapere che
il male non è se non privazione del bene fino al nulla assoluto. Dove, per altro, avrei potuto vedere la
verità, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi, l’intelletto oltre i fantasmi? E non sapevo che Dio è
spirito, non un essere dotato di membra estese in lunghezza e larghezza, e di massa: perché le parti di una
massa sono ciascuna minore dell’insieme, e se pure la massa sia infinita, è minore nelle parti definite entro
un certo spazio che nell’insieme infinito, né una massa è tutta intiera dovunque, come lo spirito, come
Dio. Cosa poi vi sia in noi che ci fa essere e ci fa dire giustamente nella Scrittura fatti a immagine di Dio,
lo ignoravo totalmente.
Sviluppo della moralità
7. 13. Non conoscevo nemmeno la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle usanze, ma in
base alla legge rettissima di Dio onnipotente; cui si devono informare i costumi dei paesi e dei tempi,
paese per paese, tempo per tempo, mentre essa non muta in ogni paese e in ogni tempo, non è diversa in
luoghi diversi, né diversamente stabilita in circostanze diverse; secondo la quale furono giusti Abramo e
Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti gli altri uomini lodati dalla bocca di Dio, mentre sono giudicati
disonesti dagli ignoranti, che giudicano secondo la giornata umana e misurano i costumi del genere
umano lungo tutta la sua storia sulla base dei propri costumi parziali e particolari. Così farebbe un tale,
che, inesperto di armature, non conoscendo le membra per cui ogni pezzo fu predisposto, volesse coprire
con un gambale la testa e calzare ai piedi l’elmo, brontolando perché non si accomodano; oppure che, in
un giorno dichiarato festivo al pomeriggio, si adirasse perché non gli concedono di esporre in vendita
qualche merce, mentre era concesso al mattino; oppure, vedendo che nella stessa casa un servo maneggia
un oggetto che al coppiere non si permette di toccare, o dietro la stalla si compiono certe faccende, che
davanti alla mensa sono vietate, s’indignasse perché, unica essendo l’abitazione e unico il servizio, non
dappertutto e non tutti hanno le medesime attribuzioni. Non diversi sono costoro, che s’indignano
all’udire come in quell’antica età erano lecite ai giusti certe azioni, che in questa non sono lecite ai giusti;
e come Dio desse precetti diversi a quegli uomini e a questi per motivi contingenti, mentre sia gli uni che
gli altri ubbidiscono alla medesima giustizia. Non vedono dunque come nella stessa persona nella stessa
giornata nello stesso edificio ad ognuna delle membra conviene una certa cosa, alle altre un’altra; e come
una cosa lecita da gran tempo non lo è più dopo un’ora, un atto permesso o comandato in quel certo
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