Page 7 - La Regola Pastorale
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spirito prodotta dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose esteriori,
                  e  ignara  solamente  di  sé,  sa  pensare  a  molte  cose  ma  non  conosce  se  stessa.  Infatti,
                  quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è come se, distratta lungo
                  un  viaggio,  si  dimenticasse  della  meta  cui  era  diretta  e  così,  noncurante  di  attendere
                  all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni riceve da ciò e ignora l’entità
                  del  suo peccato.  In effetti Ezechia non credette di  peccare quando mostrò agli ospiti
                  stranieri i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13), ma per questa azione che egli aveva
                  stimato lecita dovette portare l’ira del Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf.
                  Is.  39,  4-8).  Accade  spesso  che  molte  azioni  per  sé  lecite  e  tali  che,  quando  sono
                  compiute,  riscuotono  l’ammirazione  dei  sudditi,  provochino  però  una  esaltazione
                  dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque non si manifesti all’esterno
                  con azioni inique, attira su di sé l’ira senza riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo
                  colui che giudica ed è l’intimo che è giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che
                  compiamo in noi resta nascosto agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro
                  peccato.  Infatti  il  re  di  Babilonia  non  peccò  di  superbia  solamente  quando  giunse  a
                  pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza della sua
                  condanna quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf. Dan. 4, 16 ss.). Egli
                  poi, in precedenza, aveva lavato la sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il
                  Dio che aveva offeso, predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-
                  100);  ma  in  seguito  esaltato  per  l’affermazione  del  suo  potere,  compiaciuto  di  aver
                  compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si inorgoglì al punto
                  di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho edificato come cosa del mio
                  regno, merito della mia forza, gloria della mia maestà? (Dan. 4, 27) Furono certamente
                  queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta di quell’ira che l’intima
                  esaltazione aveva acceso. Infatti il severo Giudice aveva veduto già da prima ciò che
                  invisibilmente  era  in  lui  e  che  rimproverò  poi  pubblicamente  con  la  punizione:  lo
                  trasformò in animale irrazionale, lo separò dal consorzio umano, lo associò per la sua
                  mente  sconvolta  alle  bestie  della  campagna,  affinché  per  un  giudizio  evidentemente
                  severo  e  tuttavia  giusto,  finisse  col  non  essere  più  un  uomo  colui  che  si  era  stimato
                  grande al di sopra degli uomini (cf. Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi,
                  non intendiamo disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla
                  brama  di  raggiungerlo,  affinché  gli  imperfetti  non  osino  impadronirsi  della  massima
                  dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a
                  porre il piede sul precipizio.

                  5 — Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle anime potrebbero giovare
                  col loro esempio, ma rifiutano cercando la propria quiete

                  Ci sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro
                  grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono
                  puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza, sazi del
                  delizioso  nutrimento  della  dottrina,  umili  nella  loro  paziente  longanimità,  saldi  della
                  forza dell’autorità, benigni a motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è
                  propria della giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni
                  che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati alla
                  massima dignità del  governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al
                  loro  guadagno  e  non  a  quello  altrui,  si  privano  proprio  di  quei  doni  che  desiderano
                  possedere  a  uso  privato.  Perciò  infatti  la  Verità  dice  ai  discepoli:  Non  può  restare
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