Page 7 - La Felicità
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ritenere che la mente di coloro che sono ignoranti di ogni sapere e non hanno nozioni
nelle arti liberali è digiuna e, per così dire, affamata”. “Io ritengo, interloquì Trigezio, che
sono sazi anche essi, ma di vizi e d’immoderatezza”. “Ma, credimi, gli risposi, anche tale
stato è sterilità e fame della mente. Il corpo, mancando il necessario alimento, va soggetto
a malattie e deperimento che in esso sono indici di fame che consuma. Così lo spirito di
quei tali è pieno di mali con i quali rende palese la mancanza di nutrimento. Difatti gli
autori classici hanno insegnato che l’immoderatezza (nequitia), madre di. tutti i vizi, è
stata denominata dal motivo che è il non qualche cosa (nequidquam). La virtù che le è
contraria si denomina moderatezza (frugalitas). Come dunque questa deriva da fecondità
(frux), quanto dire da realtà prodotta per una certa fecondità spirituale, così quella da
sterilità è denominata immoderatezza, cioè dal suo non essere. È non essere infatti ciò che
soggiace al divenire, alla dissoluzione, al cangiamento e che è soggetto come ad un
morire momento per momento. Per tal motivo consideriamo come dati per morti gli
individui privi di moderatezza. V’è, al contrario, qualche cosa che è in atto, che persiste,
che è stabile: la virtù appunto; le sue manifestazioni più nobili e belle sono temperanza e
moderatezza. E se l’argomento è più complesso di quanto voi potete comprendere, per lo
meno potete accordare che, anche data l’ipotesi d’una certa sazietà della mente degli
stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l’uno di quelli che
producono salute e vita; l’altro di quelli che producono infermità e morte.
Sanità morale e desiderio.
2. 9. Stando così le cose, giacché siamo d’accordo che nell’uomo esistono due
componenti, cioè il corpo e l’anima, penso di dover offrire nel mio genetliaco un pranzo
più abbondante non solo al nostro corpo, ma anche allo spirito. E vi manifesterò, se avete
fame, la qualità del pranzo. Sprecherei la fatica se vi costringessi a mangiare di
malavoglia e senza appetito. Si deve, al contrario, auspicare che desideriate queste
vivande piuttosto che quelle materiali. L’auspicio si avvererà se il vostro animo è sano.
Gli infermi, come possiamo osservare nelle infermità fisiche, ricusano e respingono i cibi
convenienti”. Con l’espressione del viso e con parole concordi tutti dichiararono di voler
prendere e trangugiare la vivanda che avevo preparato.
L’universale desiderio di felicità.
2. 10. E riprendendo il discorso, affermai: Noi desideriamo esser felici. Avevo appena
espresso tale principio che l’accettarono all’unanimità. “Ritenete, soggiunsi, che sia
felice chi non ha l’oggetto del suo desiderio?”. Dissero di no. “Allora chiunque consegua
l’oggetto del suo desiderio è felice?”. Mia madre intervenne: “Se desidera e consegue il
bene è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice”. Ed io,
sorridendole con espressione di gioia, le dissi: “Madre mia, decisamente hai raggiunto la
vetta del filosofare. Ti è mancata certamente la terminologia per poterti esprimere come
Tullio che ha sull’argomento le seguenti parole. Ne L’Ortensio, il libro che ha scritto a
lode e difesa della filosofia, dice: Avviene che coloro i quali sono esercitati nella
dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell’affermare che sono felici
coloro che vivono secondo i loro desideri. L’opinione è certamente erronea: desiderare
infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d’infelicità il non
conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il
desiderio disordinato apporta all’uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna
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