Page 54 - L’Amicizia Spirituale
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giovane, ed eravamo diventati amici per una certa somiglianza di
carattere e d’interessi. L’altro l’avevo scelto io quando era ancora
giovanissimo, e dopo averlo messo alla prova in tanti modi, quando
ormai cominciavo ad avere un po’ di grigio sui capelli, lo accolsi in una
profondissima amicizia.
Il primo l’avevo scelto come compagno per condividere con lui le gioie
della vita religiosa e le dolcezze dello spirito che allora cominciavo a
gustare. Non ero ancora oppresso da alcun incarico pastorale né distratto
da preoccupazioni materiali. Non chiedevo né davo altro che affetto,
come vuole la carità.
L’altro, che avevo scelto ancora giovane, come assistente, lo ebbi come
collaboratore nelle presenti fatiche. Facendo, con l’aiuto della memoria,
un confronto fra queste due amicizie, direi che la prima poggiava
soprattutto sul sentimento, la seconda sulla ragione, anche se non
mancarono né l’affetto nella seconda, né la ragione nella prima. Il primo,
perse la vita agli inizi della nostra amicizia, quindi potei solo sceglierlo,
non metterlo alla prova, come abbiamo detto che si deve fare; l’altro, che
mi fu lasciato, l’ho sempre amato dalla giovinezza all’età matura. Salì con
me tutti i gradi dell’amicizia, per quanto fu possibile alla nostra
imperfezione.
La prima cosa che attrasse il mio sentimento verso di lui fu l’ammirazione
per le sue virtù. Venne dal sud, lo condussi in questa solitudine nordica, e
fui il primo a formarlo nella disciplina della vita religiosa. Da allora,
vittorioso sulle sue debolezze, capace di sopportare la fatica e la fame, fu
per moltissimi un esempio e, suscitando l’ammirazione di molti, divenne
per me fonte di vanto e di soddisfazione. Ritenni allora di coltivare la sua
amicizia secondo i migliori principi, come era naturale fare con uno che
non era di peso a nessuno, ma risultava simpatico a tutti. Obbediva
sempre con docilità, sempre umile, mansueto, serio nel comportamento,
di poche parole, ignaro di cosa fossero la rabbia, il pettegolezzo, il
rancore, la denigrazione.
Camminava come un sordo che non sente, e come un muto che non apre
la sua bocca (cfr. Sal 37,14). Lavorava senza temere la fatica, ossequiente
all’obbedienza, portando instancabilmente, nella mente e nel corpo, la
severità della disciplina ascetica. Una volta, ancora giovanissimo,
essendosi ricoverato nell’infermeria, fu rimproverato dal santo abate mio
predecessore perché ancora così giovane si era abbandonato troppo
presto al riposo e all’inerzia. Divenne tutto rosso per la vergogna, e,
uscito immediatamente, si sottopose con tanto fervore alla severità della
disciplina che per molti anni, anche quand’era stremato da una grave
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