Page 32 - Il Maestro
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Quelli sono sensibili, questi intelligibili o, per parlare nel gergo dei nostri
                  scrittori, quelli carnali, questi spirituali. Quando ci si interroga sui primi,
                  si  può  rispondere  se  l'oggetto  è  presente  fisicamente,  ad  esempio  se,
                  mentre si sta guardando la luna nuova, ci si chiede quale o dove sia. In
                  questo caso, chi richiede, se non vede, crede alla parola, ma spesso non ci
                  crede, comunque non apprende se egli stesso non vede l'oggetto di cui si
                  parla. Ma allora non apprende dalle parole ma dagli oggetti stessi e dai
                  sensi.  Le  parole,  mentre  vede,  hanno  il  medesimo  suono  che  ebbero
                  quando  non  vedeva.  Quando  poi  si  pone  il  problema  non  dei  sensibili
                  percepiti  immediatamente,  ma  di  quelli  già  percepiti,  il  nostro  discorso
                  non riguarda le cose in sé, ma i loro fantasmi conservati nella memoria.
                  Allora non  saprei proprio come  quelle  cose si possano considerar vere,
                  poiché ce ne rappresentiamo le copie, salvo che si preferisca dire di non
                  vederle e percepirle attualmente, ma di averle viste e percepite. Cosi noi
                  portiamo  nei  repertori  della  memoria  come  mezzi  d'insegnamento  i
                  fantasmi  dei  sensibili  già  percepiti.  Quando  li  facciamo  oggetto  di
                  pensiero,  siamo  consapevoli  di  non  errare  nel  parlarne,  ma  essi  sono
                  mezzi di ammaestramento soltanto per noi. Chi ascolta, se li ha percepiti
                  immediatamente,  non  apprende  dalle  mie  parole,  ma  riconosce  poiché
                  anche egli si è rappresentato i fantasmi. Se poi non li ha percepiti da sé,
                  chiunque capisce che, anziché apprendere, crede alle parole.


                  Pensiero, parole, insegnamento.



                  12.  40.  Quando  poi  si  tratta  degli  oggetti  che  conosciamo  con
                  l'intelligenza, cioè con atto di puro pensiero, si esprimono concetti di cui
                  si ha intuizione nella luce interiore della verità. Da essa viene illuminato
                  con godimento l'uomo che è considerato interiore. Ma anche in tal caso
                  un nostro uditore, se li contempla con il puro occhio interiore, sa quel che
                  dico dal proprio pensiero, non dalle mie parole. Dunque pur esprimendo
                  dei veri, non insegno neanche a lui, che ha intuizione dei veri, perché è
                  ammaestrato  non  dalle  mie  parole  ma  dall'oggetto  stesso  che  Dio  gli
                  manifesta all'interiorità. Ne potrebbe dunque parlare anche in un dialogo.
                  Pertanto sarebbe assurdo pensare che è ammaestrato dal mio discorso se,
                  prima che  io parli,  potrebbe esporli dialogando. Spesso avviene  che un
                  tale neghi in un dialogo qualche cosa e poi sia spinto ad affermarla in un
                  altro  dialogo.  Il  fatto  si  verifica  a  causa  della  debolezza  di  chi  guarda
                  poiché è incapace a riflettere la luce intelligibile sulla totalità dell'oggetto.
                  Allora  è  esortato  a  farlo  per  parti,  quando  dialoga  sulle  parti,  da  cui
                  risulta  l'intero  che  egli  non  era  capace  di  scorgere  nel  tutto.  Se  vi  è
                  condotto  dalle  parole  dell'altro  dialogante,  esse  non  insegnano  ma
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