Page 44 - Racconti di un pellegrino russo
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il capo su un palo aguzzo che puntellava la scarpata. Il corriere chiese acqua e alcool per
lavare la ferita. La disinfettò con acquavite, ne tracannò un bicchiere e gridò: – I cavalli,
svelti! Mi avvicinai a lui e gli dissi:
– Come fate a viaggiare con una ferita simile, padre mio?
– Un corriere non ha tempo di essere ammalato – rispose e scomparve. I postiglioni
trascinarono la donna in un canto presso il focolare e la coprirono con una stuoia
dicendo:
– È stato lo spavento che ha preso. Il mastro di posta, dal canto suo, si versò un
bicchierino e torno a dormire. Io rimasi solo. Poco dopo, la donna si alzò e si mise a
camminare per la stanza come una sonnambula; infine uscì di casa. Feci una preghiera
e, sentendomi debolissimo, mi addormentai poco prima dell’alba. Il mattino dissi addio
al mastro di posta e, camminando per la strada, innalzai la mia preghiera con fede,
speranza e riconoscenza al Padre di misericordia e di ogni consolazione, che aveva
allontanato da me un’imminente disgrazia. Sei anni dopo questo fatto, passando davanti
a un convento di monache, entrai in chiesa per pregare. La priora mi accolse
affabilmente in parlatorio dopo l’ufficio e mi fece portare del tè. A un tratto furono
annunciati ospiti di passaggio; essa andò loro incontro a mi lasciò con le monachine che
la servivano. Vedendo una di loro versare timidamente il tè, mi venne la curiosità di
chiederle: – Siete qui da molto tempo, sorella? – Cinque anni – rispose –; quando mi
hanno portato qui non avevo più la testa a posto, ma Dio ha avuto pietà di me. La madre
superiora mi ha presa con sé nella sua cella e mi ha fatto pronunciare i voti. – E come
avete perso la ragione? – chiesi ancora. – Per lo spavento. Lavoravo in una stazione di
posta. Una notte, mentre dormivo, un tiro di cavalli irruppe dalla finestra demolendo
tutto, e io per lo spavento diventai pazza. Per un anno intero i miei genitori mi hanno
condotta in pellegrinaggio nei luoghi santi. Bene, solo qui ho potuto guarire. A queste
parole mi rallegrai in cuor mio e glorificai Dio, la cui sapienza fa rivolgere a nostro
bene tutte le cose.
– Ho avuto molte altre avventure – dissi rivolgendomi al mio padre spirituale –. Se
volessi raccontarle tutte, non basterebbero tre giorni. Se volete, vene racconterò ancora
una.
In una limpida giornata d’estate vidi a qualche distanza dal sentiero un cimitero, o
meglio doveva trattarsi di una comunità parrocchiale con la chiesa, le case dei servi del
culto e il cimitero. Le campane suonavano per l’ufficio; mi affrettai verso la chiesa.
Anche le persone di là vi si stavano dirigendo; ma molti sedevano sull’erba prima di
entrare in chiesa e, vedendo che io mi affrettavo, mi dicevano: – Cosa vuoi correre? Hai
tempo, hai tempo; il servizio è lentissimo, il prete è malato e poi è un posapiano di
quelli… In realtà la liturgia non si svolgeva molto in fretta; il prete, giovane ma pallido
e secco, celebrava lentamente, con pietà e sentimento; alla fine della Messa pronunciò
un’ottima predica sui mezzi per acquistare l’amore di Dio. Il prete mo invitò a mangiare
con lui. Durante il pasto gli dissi: – Voi dite l’ufficio con grande pietà, padre mio, ma
anche tanto adagio! – Sì – rispose lui – questo non va troppo a genio ai miei
parrocchiani, e quelli brontolano, ma non c’è niente da fare; perché a me piace meditare
e pesare ogni parola prima di cantarla; le parole, se manca questo sentimento interiore,