Page 80 - Teologia Mistica
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CONSIDERAZIONE DECIMA

                     Sulla  teologia  mistica  i  teologi  sono  concordi,  se  si  tengono  presenti  le
                  considerazioni precedenti.
                     Invece con i filosofi privi di fede non ci può essere accordo su questo tema, perché
                  non  vogliono  credere  onde  poi  capire,  perché  sono  testardi  e  camminano  «col  capo
                  eretto»  [Gb  15,26],  si  rifiutano  di  piegare  «ogni  intelletto»  e  volontà  «per  ridurli
                  all’obbedienza di Cristo» [2Cor 10,5]. Perciò è verissimo, come è stato detto, che questa
                  sapienza appartiene in proprio solo ai cristiani, come una «fonte sigillata» [Ct 4,12] cui
                  gli estranei non hanno accesso, giacché «l’uomo carnale non comprende le cose di Dio:
                  infatti per lui sono una follia» [1Cor 2,14], e Cristo gli diventa «pietra di scandalo» [1Pt
                  2,8]  e  «segno  di  contraddizione»  [Lc  2,34].  Questo  uomo  carnale  non  «entra  per  la
                  porta» onde «trovare pascoli» [Gv 10,1.9], specialmente perché non vuole mangiare «il
                  pane vero, che viene dal cielo» [Gv 6,32], né bere «il vino che dà vigore alle vergini»
                  [Zc  9,17].  Eppure  è  soprattutto  tramite  la  frequenza  a  questa  sacra  comunione  che
                  l’uomo diventa devoto e capace di praticare la teologia mistica — purché non tralasci di
                  conformare la vita e i costumi a questo sacramento di salvezza, come si è notato altrove
                  sotto diversi punti di vista.


                                          CONSIDERAZIONE UNDICESIMA

                     Nella mente dell’uomo non può esservi teologia mistica senza una qualche specie di
                  conoscenza di Dio.
                     Alcuni  hanno  sostenuto  che  noi  non  conosciamo  niente  di  Dio,  se  non  per  via
                  negativa:  contro  costoro  c’è  l’articolo  giustamente  e  autorevolmente  condannato  a
                  Parigi. La presente tesi però si fonda su altre basi, cioè sull’osservazione che qualsiasi
                  acquisizione da parte dell’intelletto, riguardi essa Dio o altre realtà, può essere chiamata
                  conoscenza,  anzi  —  nel  linguaggio  che  adottiamo  per  i  sensi  esterni  —  addirittura
                  visione (per cui ogni sensazione la chiamiamo visione, onde diciamo: Vedi come questa
                  cosa è saporosa, quest’altra è profumata, quest’altra ancora è sonante, vedi come questa
                  è gradevole e quest’altra molesta). Ma il tema della presenza analogica di questi sensi
                  nell’intelletto è troppo vasto per poterlo discutere in questa sede. Aristotele e Basilio
                  chiamano senso l’intelletto, ed anche l’uso comune dice di uno che giudica rettamente:
                  Costui ha buon senso; costui vede chiaramente la questione; e Gregorio nelle Omelie
                  dice:  «Persino  l’amore  è  conoscenza».  E  così  il  tatto  spirituale,  il  gusto  e  l’olfatto
                  spirituali sono una specie di conoscenza, anzi la conoscenza di Dio è tanto migliore,
                  tanto più capace di coglierlo e tanto più pura quanto più penetra in Lui e per così dire lo
                  tocca, lo assapora, si inebria del suo profumo, come avviene in chi attende alla teologia
                  mistica  —  non  però  come  semplici  «uditori»  o  osservatori,  ma  come  «gente  che  la
                  pratica» [Gc 1,22].
                     Prendiamo l’esempio del bambino abbracciato alla madre per la poppata: egli non
                  vede altro, non ode, o almeno non si accorge di vedere o udire alcunché d’altro, tutto
                  preso  com’è  dal  succhiare  il  latte,  cosa  che  gli  reca  diletto.  In  quel  momento  non
                  conosce nulla in maniera riflessa, nemmeno che il latte è dolce o buono, ente o non ente,
                  ma si limita a premere il viso sulle mammelle che lo allattano: siamo di fronte a una
                  sorta  di  operazione  tattile  sperimentativa,  cioè  non  riflessa,  non  dichiarativa  o
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