Page 3 - Il lavoro dei monaci
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AGOSTINO DI IPPONA
IL LAVORO DEI MONACI
Introduzione: le origini dell’opera.
1. 1.Cedo al tuo pressante invito, o mio venerato fratello Aurelio, e lo faccio con tanto più rispetto quanto
più palesemente mi è risultato chi sia stato l’autore del comando pervenutomi per tuo mezzo. È stato
infatti il nostro Signore Gesù Cristo, il quale ha dimora nel tuo cuore, colui che ti ha ispirato una così viva
preoccupazione – frutto d’amore di padre e di fratello – nei riguardi di certi monaci, fratelli e figli nostri,
che si rifiutano d’obbedire al precetto del beato apostolo Paolo: Chi non vuol lavorare non deve nemmeno
mangiare. Egli, servendosi della tua volontà e della tua lingua per la sua opera, mi ha fatto pervenire per
tuo mezzo l’ingiunzione di scriverti qualche riga sull’opportunità o meno di lasciar correre un tal modo
sregolato di comportarsi. Voglia pertanto il nostro Signore assistermi, affinché esegua l’opera in modo che
dai frutti e dall’utilità del lavoro mi sia dato comprendere che per sua grazia sono stato docile alla sua
volontà.
Le argomentazioni degli infingardi.
1. 2. La prima cosa che occorre prendere in esame sono i pretesti che adducono questi monaci che si
rifiutano di lavorare. Poi, se riscontreremo che essi sono nel falso, occorrerà dire qualcosa sui mezzi per
farli ravvedere. Essi sostengono che le parole dell’Apostolo: Chi non vuol lavorare non deve nemmeno
mangiare, non debbono intendersi del lavoro manuale, quello, per esempio, dei contadini o dei braccianti.
Non può infatti l’Apostolo essere in contrasto col vangelo, dove son riportate le parole del Signore: Io
pertanto vi dico di non essere in angustia, per la vostra vita, su che cosa mangiare né, per il vostro
corpo, su come vestirvi. La vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli
dell’aria: essi non seminano, non mietono, non raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li
nutre. E voi non valete più di loro? E chi di voi è capace, a forza di pensarci, d’aumentare di una spanna
l’altezza del suo corpo? Quanto poi al vestiario, perché preoccuparvene tanto? Osservate i gigli del
campo e come si sviluppano. Essi non lavorano né filano; eppure, ve lo dico io, nemmeno Salomone nello
splendore della sua gloria era vestito come uno di loro. Se pertanto Dio veste in tal modo l’erba del
campo che oggi è e domani viene gettata nel forno, quanto più vestirà voi, gente di poca fede? Non vi
angustiate dunque né andate a dire: Che cosa mangeremo o che cosa berremo o di che ci copriremo?
Sono, queste, cose di cui vanno in cerca i pagani: cose di cui il Padre vostro sa che ne avete bisogno.
Cercate dunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date per
giunta. Né mettetevi in pena per il domani: il domani avrà di per sé la sua pena. A ogni giorno il suo
affanno. Ecco un testo – argomentano costoro – in cui il Signore ci ordina di non inquietarci né per il cibo
né per il vestito. Potrebbe mai un apostolo dissentire dal suo Signore e venirci a comandare d’essere
preoccupati del cibo, della bevanda e delle vesti fino al punto che ci si debba accollare anche il peso delle
attività, dei travagli e delle fatiche dei braccianti? Le parole: Chi non vuol lavorare non deve nemmeno
mangiare debbono, conseguentemente, essere riferite ai lavori d’ordine spirituale, quelli – ad esempio – di
cui si tratta nell’altro passo, dove si dice: A ciascuno come ha largito il Signore. Io ho piantato; Apollo
ha innaffiato; chi poi ha fatto crescere è stato Iddio. E poco dopo: Ciascuno riceverà il compenso in
proporzione del lavoro svolto. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di
Dio. In conformità con la grazia ricevuta, io, da esperto architetto, ho posto il fondamento. L’Apostolo
dunque lavorava piantando, innaffiando, elevando l’edificio e ponendone le fondamenta. Colui che non
vuol sottoporsi a tal genere di lavori non deve nemmeno mangiare. A che servirebbe infatti nutrirsi della
parola di Dio, gustata spiritualmente, se non ne seguissero opere di edificazione per il prossimo? Si
sarebbe come quel servo indolente che, ricevuto il talento, lo nascose e non seppe ricavarne gli
emolumenti intesi dal padrone, e così non ne trasse altro utile se non quello di vedersi, alla fine, tolta la
somma e lui stesso scacciato fuori casa nel buio. Così – dicono – ci comportiamo anche noi: attendiamo
alla lettura in compagnia dei fratelli che affaticati vengono a noi di tra le burrasche del mondo per trovare,
fra noi, la quiete nello studio della parola di Dio, nella preghiera, nei salmi, negli inni e nei cantici
spirituali. Dialoghiamo con loro, li consoliamo, li esortiamo al bene costruendo in essi, cioè nella loro
condotta, quanto a nostro avviso ancora vi manca, avuta considerazione dello stato in cui si trovano. Se
non ci dedicassimo a tali attività, sarebbe pericoloso il nostro ricorrere a Dio in cerca degli alimenti
d’ordine spirituale che egli dispensa. È ad essi che si riferisce l’Apostolo quando afferma: Chi non vuol
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